DEPRESSIONE
Sento una fitta lancinante partire dal retro della nuca arrivare fino alle tempie: mi sveglio, mi stropiccio con i polpastrelli le palpebre e apro gli occhi, la luce è fastidiosissima. La prima cosa che noto sono le alte siepi che circondano la mia visuale; per un momento ho sperato di svegliarmi altrove o di non svegliarmi affatto.
Mi tiro su, mi metto seduta, mi prendo la testa tra le mani e scoppio a piangere: è l'unico momento di disperazione che mi concedo prima di cominciare un'altra giornata nella speranza che non sia uguale a quella precedente. Non ho idea di che ore siano ma devo alzarmi, almeno oggi, il sole è già alto ciò significa che è tardi. "Dai Fra per favore" mi ripeto, "per favore continua ad andare avanti". Non so quantificare da quanto tempo io mi trovi qui, in mezzo a questo labirinto: da sempre? Da pochi mesi? Non credo abbia importanza, vorrei solo uscire. Mi avvio in silenzio, camminando piano senza fare rumore, sto all'erta sperando di sentire una voce, un richiamo, o qualche suono familiare che possa aiutarmi a trovare l'orientamento. Niente da fare, più il tempo scorre e le ombre delle siepi si allungano davanti ai miei piedi, più sale un forte senso di inadeguatezza e vergogna: come ho fatto a perdermi dentro di me? Sembra stupido e ridicolo, mentre lo penso noto dei rami spezzati, segno che per quella strada ci ero già passata, chissà quante volte, oltretutto.
I primi periodi mi alzavo al sorgere del sole e mi mettevo a correre in tutte le direzioni, venivo graffiata dai rami nei corridoi più stretti, più volte mi sono schiantata contro di essi quando, svoltando dopo una curva, mi rendevo conto che la strada non proseguiva: erano tutti vicoli ciechi. Dopo un po', avevo smesso di correre, non ne trovavo il senso. La speranza mi aveva lasciato lentamente, giorno dopo giorno. In un primo momento avevo anche usato la voce: per urlare, per chiedere aiuto, dicevo che mi ero persa ma non ho mai ricevuto nessuna risposta e così avevo deciso di mettermi all'ascolto, nella speranza di sentire io qualcosa visto che non venivo udita dagli altri.
Mentre continuo a camminare mi guardo i piedi: le scarpe consumate a furia di girovagare, ho anche tentato di barare: di arrampicarmi sulle siepi per vedere meglio o semplicemente oltre ma era stato tutto inutile. Mi ero costruita da sola quel gioco e mi ci ero persa dentro. Mi sforzavo continuamente di ricordare qualcosa: come ci ero arrivata, quale era stata l'ultima cosa fatta, con chi ero, con chi avevo parlato prima di risvegliarmi qui, ma non riuscivo a mettere a fuoco nulla.
Mi ero letteralmente persa nel labirinto della mia testa, e non sapevo come uscirne, una parte di me sapeva che c'era stato un periodo felice in cui io vivevo in cima alla torretta, al centro di tutti quegli incroci senza fine, da cui potevo osservare tutto: avevo il controllo della situazione, una visuale perfetta dall'alto a 360° di ciò che mi circondava.
E poi?
E poi non lo so, davvero.
Fino a qualche tempo fa non avrei saputo come descriverla o come parlare di LEI, ci convivevo da talmente tanto che mi ci ero abituata. Ora finalmente riesco a vederla con distacco: un accessorio che sono riuscita a riporre sul mobile accanto al letto. LEI sta li in silenzio a fissarmi, ogni tanto prima di andare a dormire (prima di spegnere la luce) la controllo: se si è mossa, se è cresciuta o se magari si sta affievolendo. Fino a qualche mese fa, LEI era dentro di me: era attaccata ai tessuti, ai muscoli e avvolgeva il mio cervello. Stavo morendo asfissiata ma non me ne rendevo nemmeno conto. Siamo la specie che riesce meglio ad adattarsi e io avevo imparato a convivere con quella sensazione di pesantezza in maniera esemplare, tant'è che nessuna delle persone a me più vicine avrebbe mai sospettato che mi stavo autodistruggendo.
Sono sempre stata una persona spigliata, sorridente, entusiasta. Man mano che LEI cresceva e si espandeva dentro di me io morivo, un pezzetto alla volta in maniera quasi impercettibile. Negli anni mi sono costruita una maschera per celarmi agli altri: fingevo sempre quando ero in compagnia perché erano gli unici momenti di distrazione e non volevo pesantezza: come un carcerato si gode la sua ora d'aria io mi godevo quelle piccole gioie pensando di meritarmi di essere imprigionata tutto il resto del tempo. Così mi accontentavo e quando ero da sola, di sera, esplodevo, mi lasciavo andare, concedevo a LEI di invadermi: di prendermi dalla testa ai piedi, di consumarmi, le davo lo spazio che quando uscivo le negavo.
Sono sempre stata una persona spigliata, sorridente, entusiasta. Man mano che LEI cresceva e si espandeva dentro di me io morivo, un pezzetto alla volta in maniera quasi impercettibile. Negli anni mi sono costruita una maschera per celarmi agli altri: fingevo sempre quando ero in compagnia perché erano gli unici momenti di distrazione e non volevo pesantezza: come un carcerato si gode la sua ora d'aria io mi godevo quelle piccole gioie pensando di meritarmi di essere imprigionata tutto il resto del tempo. Così mi accontentavo e quando ero da sola, di sera, esplodevo, mi lasciavo andare, concedevo a LEI di invadermi: di prendermi dalla testa ai piedi, di consumarmi, le davo lo spazio che quando uscivo le negavo.
Avevamo questo tacito accordo: di giorno vivevo io e la notte era sua.
Per me questa era la normalità condividevo il mio corpo con un essere estraneo che lentamente stava crescendo, mi stava divorando: era una zavorra incatenata alle caviglie, erano mani che mi tiravano i capelli ogni volta che provavo a fare un passo avanti, mi faceva gli sgambetti, di notte mentre dormivo si insinuava nella mia testa per farmi fare incubi per poi tenermi sveglia a farle compagnia per ore, mi faceva prendere paura e mi provocava attacchi di panico continui, quanto si divertiva LEI non potete neanche immaginarlo. Poi si è messa a scherzare anche con il cibo ma questa è un'altra storia.
Per me questa era la normalità condividevo il mio corpo con un essere estraneo che lentamente stava crescendo, mi stava divorando: era una zavorra incatenata alle caviglie, erano mani che mi tiravano i capelli ogni volta che provavo a fare un passo avanti, mi faceva gli sgambetti, di notte mentre dormivo si insinuava nella mia testa per farmi fare incubi per poi tenermi sveglia a farle compagnia per ore, mi faceva prendere paura e mi provocava attacchi di panico continui, quanto si divertiva LEI non potete neanche immaginarlo. Poi si è messa a scherzare anche con il cibo ma questa è un'altra storia.
Mentre scrivo ora la sto guardando, LEI è li appoggiata sulla mensola, rannicchiata: sembra quasi innocua.
Ora la guarda e sorrido, penso a quanto sia meraviglioso alzarsi la mattina e aprire gli occhi senza che LEI sia li a trattenermi come una rete nel letto, a quanto sia bello avere la mente libera senza che i pensieri siano occupati dalla sua presenza opprimente e costante.
LEI avanzava, mi aveva assorbito interamente, tutto quello che mi definiva l'avevo perso: avevo perso il mio essere estroversa, romantica, sognatrice; il mio essere creativa, solare, ottimista; il mio essere ingenua, sprovveduta, tutto ciò che mi definiva come Francesca si era spento.
LEI avanzava, mi aveva assorbito interamente, tutto quello che mi definiva l'avevo perso: avevo perso il mio essere estroversa, romantica, sognatrice; il mio essere creativa, solare, ottimista; il mio essere ingenua, sprovveduta, tutto ciò che mi definiva come Francesca si era spento.
Non te ne accorgi di essere depresso. Ci sei sceso in quell'abisso un passo dopo l'altro, per settimane, per mesi. Non ti sei accorto di essere al buio perché la luce è andata via gradualmente e i tuoi occhi si sono abituati all'oscurità. Tant'è che ci vediamo benissimo anche se brancoliamo nel buio. Un po' come le relazioni tossiche: non nascono tali, lo diventano. Un giorno ti domandi come hai fatto ad affiancarti ad una persona che al posto di darti, ti toglie. La depressione non nasce, evolve. La sofferenza non la si percepisce subito, anzi, più siamo bravi a stringere i denti più tardi ce ne accorgiamo. Come quando fai un'immersione. Trattieni il fiato, continui a scendere, ti stanchi ma pensi di poterlo sopportare, senti l'ossigeno che si dissolve man mano e quando ti ritrovi a metri e metri sotto il mare realizzi che li non puoi respirare, che non ce la fai più, e devi per forza risalire: c'è chi ci riesce a riaffiorare in superficie e chi no. Non si tratta di bravura ma solo di quanto si era scesi prima di rendersi conto che era una strada senza via d'uscita, che a forza di scendere non saremo sbucati da un'altra parte.
E' difficile spiegarlo a chi non l'ha passato. Le cose più comuni che ti senti dire sono "Ma come? Studi, lavori, fai sport sei in salute, non puoi essere triste, non ti manca niente!" Il punto cruciale è proprio questo. Non è che ci manca qualcosa, abbiamo un di più che ci sta avvelenando che non riusciamo a togliere. E' un ingombro di cui non ci riusciamo a disfarci perché non sappiamo come è fatto e come affrontarlo. Ci svegliamo la mattina cercando di correre più veloci: di fare tutto quello che dovremmo fare prima che LEI arrivi, che ci piombi addosso e ci trascini giù, ci sono giorni in cui ci riusciamo e andiamo a letto tranquilli: pensiamo di aver vinto ma in realtà è solo un'illusione perché il giorno dopo LEI si sente presa in giro e diventa cattiva il doppio.
Quando ho iniziato a stare bene non ci credevo. Come un miraggio quando sei in mezzo al deserto: non credi di aver trovato l'acqua finché non senti il liquido che ti scende giù nella gola e anzi forse anche in quel momento potresti pensare che sia solo un bellissimo sogno. La mia prima giornata buona l'ho giustificata con il bel tempo, la seconda perché avevo fatto qualcosa di divertente, come anche la terza, la quarta c'era sicuramente qualcos'altro a legittimare il tutto. Più i giorni passavano più mi sentivo leggera, non capivo: mi ero anche pesata ma il peso era sempre quello, poi ho realizzato. Mentre mi scrutavo allo specchio per capire cosa avevo di diverso l'ho vista. LEI era li, dall'altra parte della stanza che mi fissava tramite il riflesso dello specchio, era un po accigliata e amareggiata che fossi riuscita ad allontanarla.
Lì per lì non ho avuto il coraggio di affrontarla, ho finito di prepararmi e sono uscita dalla camera chiudendo la porta per sicurezza, per paura che provasse a seguirmi.
Con il passare delle settimane la vedevo indebolirsi e così un giorno presi un po di coraggio e mi avvicinai per osservarla meglio.
La affrontai, le chiesi perché: perché aveva scelto me, perché aveva deciso di insediarsi nel mio corpo, di cambiarmi, di rendermi ciò che non ero, di modificarmi al punto da non farmi riconoscere più. Sono scoppiata a piangere, pensando a quando tempo avevo sprecato cercando di combatterla con mezzi inadatti, tirando pugni contro il vento perché non avevo idea di dove colpire: avevo lottato così a lungo che pensavo fosse normale. Pensavo fosse normale avere una guerra dentro di se e solo dopo mi sono resa conto di cosa volesse dire stare bene per davvero.
Ho pianto tutte le lacrime che avevo, e alla fine l'ho ringraziata perché anche se non la rivoglio nella mia vita mi è servita per rinascere. Ho ringraziato anche me stessa: per non essermi arresa, per aver avuto il coraggio e la voglia di chiedere aiuto per tornare in superficie.
Con il passare delle settimane la vedevo indebolirsi e così un giorno presi un po di coraggio e mi avvicinai per osservarla meglio.
La affrontai, le chiesi perché: perché aveva scelto me, perché aveva deciso di insediarsi nel mio corpo, di cambiarmi, di rendermi ciò che non ero, di modificarmi al punto da non farmi riconoscere più. Sono scoppiata a piangere, pensando a quando tempo avevo sprecato cercando di combatterla con mezzi inadatti, tirando pugni contro il vento perché non avevo idea di dove colpire: avevo lottato così a lungo che pensavo fosse normale. Pensavo fosse normale avere una guerra dentro di se e solo dopo mi sono resa conto di cosa volesse dire stare bene per davvero.
Ho pianto tutte le lacrime che avevo, e alla fine l'ho ringraziata perché anche se non la rivoglio nella mia vita mi è servita per rinascere. Ho ringraziato anche me stessa: per non essermi arresa, per aver avuto il coraggio e la voglia di chiedere aiuto per tornare in superficie.
Sto galleggiando, sono ancora in mezzo all'oceano alla deriva. Mi gira la testa per il troppo tempo passato in apnea. Faccio respiri grandi, non mi sembra vero, avevo dimenticato quanto fosse bello respirare, sento i polmoni che si espandono e si restringono. Sono viva.
E' l'unica cosa che importa.
Leggendolo mi sono venute in mente le fasi di accettazione del lutto (ma penso si possa adattare in genere al dolore, alla fine è il processo mentale che conta): rifiuto, negazione, isolamento, collera, paura/depressione, tristezza, venire a patti/accettazione, perdono, senso di rinascita.
RispondiEliminaSon felice di vederti sulla buona strada, goditi la risalita (:
grazie di cuore
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