GIACINTA
Oggi volevo raccontarvi una storia, questa volta non scritta da me ma da Carlo Goldoni a metà del Settecento; quindi ormai qualche secolo fa.
Vorrei raccontarvi questa storia perché leggendone una parte ne sono rimasta affascinata.
Il racconto fa parte della trilogia de LA VILLEGGIATURA, una serie teatrale concepita per mettere in risalto i limiti della classe borghese. Goldoni fin dagli esordi era stato un ammiratore dell'operosità della classe lavoratrice, classe che con l'impegno e senza titoli ereditati dalla nascita era in grado di costruirsi il suo futuro (esempio che ritroviamo ne LA LOCANDIERA). Questa visione idilliaca viene meno quando i borghesi iniziarono ad assimilare i vizi della classe nobiliare come quello della villeggiatura: la necessità di ritirarsi in mezzo alla natura per prendersi una pausa dal ritmo caotico della città andando, di conseguenza, a contaminare i paesaggi della campagna con i tumulti tipici cittadini. Perché i drammi non li lasciamo a casa quando andiamo in vacanza ma ce li portiamo appresso.
Ed è proprio in questo contesto che Goldoni fa spazio ad una drammatica storia d'amore che gira intorno al personaggio di Giacinta, la quale finisce per innamorarsi dell'ospite Guglielmo. La diffidenza percepita dagli altri personaggi maschera una forte attrazione che si anima tra sguardi, sospiri e mani che si sfiorano di nascosto. I dialoghi fatti di botta e risposta tra i vari personaggi rievocano una battaglia sfinente tra la passione e l'autocontrollo.
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: perché? Perché Giacinta e Guglielmo non possono godere di quella passione? Perché non possono amarsi fino a consumarsi? Perché devono respingere un'emozione? La risposta sta nei costrutti sociali, nelle aspettative degli altri da rispettare: il matrimonio non è l'unione di due anime affini ma semplicemente un patto tra famiglie per questioni per lo più economiche.
Così Giacinta si costringe all'autopunizione, auto-convincendosi che la resistenza sia una virtù, che resistere a ciò che si prova sia un vanto, un trionfo. Potremmo guardare Giacinta e vedere una donna ottimista che riesce a trovare un lato positivo anche in una tragedia. Perché questo altro non è, una disgrazia: due coppie condannate all'infelicità per rispettare le regole che una società imponeva loro, e che anche se in modo diverso, impone ancora a noi oggi. Quello che frena Giacinta è il concetto di reputazione che perderebbe se seguisse il suo cuore e che conta tanto nella classe borghese del Settecento. Perdere la reputazione la spaventa, le fa paura. Le fa meno paura l'infelicità a cui sa che sarà condannata sposando una persona che le è indifferente e che non la fa sentire viva. Il sentimento della paura, dell'incognito, del rischio è una ghigliottina che semina teste ovunque, è una condanna a morte da cui quasi nessuno riesce a salvarsi.
Giacinta deve operare una scelta e decide di optare per il male minore: seguire il suo cuore sarebbe un rischio troppo grande senza garanzie, un salto nel vuoto senza nessun paracadute certo. Seguire la ragione al contrario è continuare a camminare sul sentiero battuto e tracciato, è sicuro anche se logorante nella sua noiosità. Giacinta così convolerà a nozze con Leonardo mentre Guglielmo prenderà in sposa Vittoria.
Molte persone scelgono la via tracciata perché più in linea con il loro carattere e questo è accettabile ma ci sono persone che non sono destinate a colorare dentro i bordi, che abbinano la libertà all'ossigeno che bisogna respirare per vivere, sono persone a cui non interessa il sentiero perché i boschi vogliono esplorarli girando senza una mappa, sono persone che vogliono perdersi prima di ritrovarsi. Questa tipologia di persone soffre di più perché mentre camminano con le gambe sul sentiero non possono far altro che essere altrove con la testa, con i pensieri ma sopratutto con il cuore. La sofferenza nasce quando ragione e sentimento non vanno nella stessa direzione, quando si separano ignari di essere collegati insieme, cuciti l'uno sull'altro e così si lacerano, si strappano con il cuore che spera di poter essere libero e la testa radicata con radici profonde lì, laddove sa che è sicuro restare.
Non so se l'autocontrollo sia una virtù, non so se Giacinta ci abbia effettivamente guadagnato a reprimere un simile impulso, non so se con il tempo il ricordo di Guglielmo si sia affievolito. Non so se di notte prima di dormire lei ci pensi ancora, a quei giorni vissuti insieme in campagna, anche a distanza di anni. Non ho risposte, l'unica cosa che pensavo leggendo i vari atti delle scene della storia di Goldoni è che mi è parso un peccato, uno spreco indicibile. Sicuramente con Guglielmo non sarebbe stato tutto rose e fiori, avrebbero litigato e chissà probabilmente si sarebbero pure lasciati alla fine, ma non siete d'accordo con me nel pensare che ne sarebbe valsa la pena comunque?
Pensiero stupendo ❤️
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