Poi capii che non si trattava solo di ammirazione, vedevo in quella persona quasi un punto di arrivo, un salvagente, un luogo in cui rifugiarmi....
Primo errore: ignorare la tempesta che avevo dentro
Ho sempre avuto una tempesta dentro spaventosa, non avevo mai avuto il coraggio di affrontarla, principalmente perché credevo fosse normale sentirsi così. Ero convinta che dipendesse dall'esterno, che fosse colpa di ciò che mi circondava e quindi pensavo di poter scappare, di poter trovare la serenità altrove. Forse era anche per questo che l'idea di mollare tutto e partire in giro per il mondo non mi spaventava neanche un po', non avevo nulla da lasciare qua, non avevo neanche un amico. Sono sempre stata una persona solitaria ma negli anni adolescenziali e quelli subito dopo avevo proprio finito per isolarmi che è ben diverso dal saper stare da soli. Mi ero rinchiusa nella gabbia della mia mente e ci ero rimasta talmente a lungo che mi ero dimenticata dove avessi messo le chiavi per poterne uscire.
Secondo errore: credere che fosse colpa dell'ambiente
Pensavo fosse quello a causare tutto quel mal di mare.
Non avevo neanche mai considerato che il problema potesse risiedere dentro di me.
Ho passato tantissimo tempo della mia vita a reprimermi, a mettermi da parte, a trattenermi, a non dire quello che pensavo, a non fare quello che volevo; perché fondamentalmente non avevo mai creduto nelle mie capacità. Ho sempre avuto la convinzione di non avere nulla da dire che meritasse di essere ascoltato, non ho mai pensato che le mie idee potessero essere buone. Non mi sono mai realmente percepita, mi sono sempre sentita un po' una nave alla deriva,
in balia delle onde senza una direzione precisa.
Il mare mi sembrava tutto uguale e non avevo idea di dove volessi andare.
Come potevo dire la mia, come potevo espormi, alzare la mano e rispondere ad un quesito,
io che ero li sperduta in mezzo al niente terrorizzata all'idea di non intraprendere mai una strada.
Terzo errore: dedicarsi agli altri per non guardarsi dentro
E' risaputo che la gente che aiuta gli altri in maniera compulsiva lo fa per non pensare a se stesso, ma non si dice quasi mai che non ci si rende conto di ciò: si vede la sofferenza negli altri, la si riconosce e si vuole porre un rimedio perché siamo consapevoli di quanto sia difficile navigare con la tempesta. Io mi dedicavo all'altra persona perché non sapevo come prendermi cura di me: speravo che rendere felice qualcun altro facesse sparire parte della mia tristezza da un lato e dall'altro speravo che mi facesse sentire amata. Credevo fosse una specie di bilancia, se davo prima o poi avrei dovuto ricevere, la credevo una legge universale, eppure non capivo perché nonostante mi sforzassi di dare un qualcosa che non avevo mi sentissi sempre incompresa, sola.
Ho capito solo dopo averci sbattuto la testa più volte che non potevo pretendere di dare agli altri ciò che mancava, in primis, a me.
Quarto errore: non dare peso a ciò che provavo
Questo credo che sia stato l'errore che più ha rovinato il rapporto tra me e l'altra persona, sapevo di non stare bene ma non riuscivo a mettere a fuoco la situazione: Colpa mia? Colpa sua? Mi mancava qualcosa? Era il lavoro? La casa? Mi stavo lamentando inutilmente? Forse semplicemente dovevo accontentarmi? Perché mi andava tutto stretto? Cosa stavo sbagliando?
Un po' alla volta tutte queste domande senza risposta si tramutarono in attacchi di panico e notti in bianco, ho letteralmente smesso di dormire fino ad avere paura di me stessa, non mi riconoscevo più.
Ero sul fondo e non sapevo come risalire, non ne avevo davvero idea.
Il passo più difficile: l'accettazione di se
Ho dovuto accettare che quella relazione per me in quel momento non andava bene, perché io non avevo bisogno di un piano per scappare, ma di una imbracatura e una pila per calarmi dentro di me e capire chi fossi. Perché altrimenti mi sarei portata tutta quella pesantezza in giro probabilmente per sempre.
Realizzai di dover chiudere quando il mio compagno firmò per l'acquisto di un nuovo mezzo di locomozione con il quale viaggiare, ero felice per lui e questo bilanciava la sensazione di essermi condannata all'essere infelice scappando.
Credo che sia stata la cosa più difficile che abbia fatto, abbandonare il salvagente per provare a nuotare senza un aiuto esterno.
Ho dovuto accettare di soffrire di depressione e di avere dei disturbi alimentari, che detta così sembra facile: ma per fare queste due cose ci ho impiegato quasi due anni (e non per risolverli ma solo per accettarli come tali)
Rivangare il passato alla ricerca di un capro espiatorio non aveva nessun senso,
ma ne sono accorta solo con il tempo. Mi ero sempre posta la domanda sbagliata.
L'attenzione andava posta su qualcos'altro: perché ci ho messo così tanto ad accettarmi e a volermi bene per ciò che ero? Perché sono sempre stata convinta di non potercela fare da sola? Perché non ho mai avuto fiducia in me stessa e mi sono sempre sottovalutata? Spostando il focus mi sono resa conto che quella relazione non sarebbe potuta durare, e non per le mancanze dell'altra persona, ma perché io semplicemente non ero pronta. Perdere le persone durante il tragitto della vita non è piacevole, ogni persona che lasciamo indietro ci sembra inevitabilmente una porta che si chiude ma può essere anche l'unico modo per fare luce dentro noi stessi.
Togliendo resta più spazio per noi, ed è così che si cresce.
Ho realizzato, solo avendolo provato sulla mia pelle, quanto sia davvero difficile connettersi con qualcun altro. Non mi sono mai sentita compresa, accettata, ascoltata ma come potevo pretendere di sentirmi così con qualcuno se io per prima non avevo il coraggio di guardarmi dentro?
L'unico rimpianto che ho e per il quale mi sento in dovere di chiedere scusa è per aver ferito chi mi stava attorno nel tentativo di trovare me stessa. Nessuno vorrebbe ferire le persone a cui tiene ma a volte è inevitabile, per districarsi da un rovo di spine devi per forza ferirti in qualche punto.
Muoversi è l'unico modo per uscire e non ci si può spostare senza urtare chi ti sta accanto.
Ho imparato che amare qualcuno non implica per forza starci insieme nel senso tradizionale del termine, che si può amare a distanza, si può amare qualcuno che non fa più parte della nostra vita ma che ci ha segnato talmente tanto che un parte di quella persona viaggerà con noi per sempre. Perché il buono delle persone che incontriamo non si estingue ma si lega a noi in modo indissolubile e non importa quanto tempo passi, certe sensazioni non cambiano e questo credo che sia stato l'insegnamento più grande imparato in questi ultimi anni.
Scrivendone così sembra tutto facile invece è stato un percorso difficilissimo, e ho capito che il viaggio più impegnativo che potremmo fare è dentro noi stessi.
E' stato difficile anche accettare il "non riconoscersi" nei modi e nei comportamenti della me del passato. Per molte cose mi vergogno della persona che ero, c'è una lista lunghissima di cose che non ho fatto come avrei voluto o di situazioni che non ho saputo gestire. Non sono sempre stata fiera di me ma questo significa crescere, significa evolversi, mutare. Non restare statici ma trasformarsi e di questo ne vado fiera.
Ad oggi riguardando me, e le persone che ho incontrato nel mio cammino riesco a provare solo tanta gratitudine, perché quello che sono oggi è la somma di ogni singolo passo condiviso con qualcun altro.
Profondamente grata
Mi sono molto rivista in questo tuo racconto..grazie perché arrivi dritta al cuore..piacerebbe conoscerti
RispondiEliminaMa che belle parole, grazie mille. Mi trovi su instagram con lo stesso nome se vuoi
Elimina